Premessa
Da quando è stata redatta e pubblicata la carta di San
Michele, stilato e firmato da esponenti della ricerca scientifica e da
personalità di rilievo del mondo dell’apicoltura e dell’ambientalismo, non sono
tardate ad arrivare le prime prese di posizione da parte di associazioni,
singoli apicoltori hobbisti, apicoltori professionisti e semplici appassionati
di api in generale.
Complice il fatto di essere stata divulgata in piena stagione,
quando di norma l’apicoltore medio ha un sacco di lavoro da fare, la
discussione è partita in sordina o meglio sembrava si volesse rimandare
riflessioni e discussioni nei mesi invernali, quando di norma, si dovrebbe
avere un poco più di tempo.
E così effettivamente è stato.
Non sono mancate, né si sono fatte attendere, dichiarazioni
importati di Unaapi in merito, né tantomeno un editoriale al vetriolo (dal mio
modesto punto di vista) apparso sulla rivista Apis n° del…. Nei vari gruppi a
cui appartengo (non tanti a dire il vero) le discussioni si sono sempre fatte
più frequenti e mano mano che l’inverno incalza, sempre più gente prende
posizione. Chi pro, chi contro. Ho
atteso anche io a pubblicare un mio modesto parere, non ho nessuna pretesa in merito,
perché mi reputo un bambino in mezzo agli adulti, ma proprio perché “bambino” e
meno navigato posso vedere le cose con occhi un po’ diversi dai “giganti” (o
resi tali dai potenti mezzi di internet) dell’apicoltura.
A dirla tutta la carta di San Michele l’ho dovuta leggere
svariate volte per comprenderla, mentre la lettura del manifesto Unaapi è stato
più semplice e diretto.
Sempre ad essere onesti è stato quest’ultimo documento a
farmi venire voglia di scrivere due righe o forse più in merito. Così di getto,
come questa umile premessa.
La carta di San Michele all’Adige.
La carta si divide fondamentalmente in due parti distinte ma
collegate fra loro.
La prima parte inizia con una dotta introduzione sull’ape
mellifera, la distribuzione delle varie sottospecie, fino ad arrivare a quelle
presenti originariamente in Italia, ovvero:
•
Ligustica
•
Siciliana
•
Mellifera
•
Carnica
queste
ultime due probabilmente solo come popolazioni ibridate in vario grado con A. m. ligustica [cit. dalla carta].
Punto saliente del ragionamento sulla prima parte del
documento, a mio avviso, è la seguente frase:
“Le sottospecie ligustica e siciliana non
sono soltanto autoctone ma sono anche endemiche
dell’Italia e il loro areale originario è tutto
compreso entro il territorio italiano.”
A cui fa seguito un’altra importate analisi:
“Per
quanto riguarda A. m. ligustica conviene
sottolineare che la sua distribuzione su un territorio così vasto e,
soprattutto, diverso dal punto di vista bioclimatico, doveva essere
originariamente espressa in tanti ecotipi
33, 34 locali,
ognuno ben adattato a peculiari condizioni, come si evince anche dagli studi
condotti in
Sardegna.”
Continuando a leggere la carta, si arriva a inquadrare
l’ape mellifera come apoideo selvatico
anche quando gestito dall’apicoltura :
“A. mellifera e le sue sottospecie autoctone, negli areali di
origine, sono apoidei selvatici!
La tutela dell’ape mellifica da
un punto di vista faunistico va inquadrata proprio
nell’ottica della conservazione
degli equilibri naturali, oltre che dell’apicoltura.”
“È dunque fondamentale ribadire
come in Italia e nelle aree di origine, A.
mellifera, anche quando sia gestita mediante l’apicoltura,
ha una propria identità, rappresenta una specifica espressione
dell’informazione biologica e quindi merita di essere tutelata come componente
della Fauna
Selvatica.”
Continuando la lettura (qui tralascio la parte normativa)
poco entusiasmante e fin troppo ricca di leggi, leggine e quant’altro si arriva
a bell’elenco numerato, 6 semplici punti, che rappresentano le cause della
compromissione e del declino dell’ape autoctona, ovvero: (sono scritti in
ordine di importanza questi punti
sulla carta?)
1.
Movimentazione di sottospecie da un’areale ad un altro
2.
Tecniche di allevamento regine
3.
Nomadismo
4.
Varroa e problematiche ad essa connesse
5.
Ibridi Commerciali
6.
Agrofarmaci
Infine la carta giunge agli
appelli affinché le istituzioni in armonia con gli apicoltori si adoperino con
atti concreti alla salvaguardia della nostra amata ape, appello che vuole
sottolineare quanto sia importante. Le azioni da intraprendere sono su tre
punti:
1.
definire un database nazionale del patrimonio di A. mellifera, su base morfometrica e
genetica, da collegare all’Anagrafe Apistica
2.
rafforzare la ricerca apidologica per sostenere
adeguate strategie di conservazione, favorendo gli studi volti ad individuare e
valorizzare linee genetiche locali e determinare l'impatto di specie invasive
(piante, animali, parassiti e patogeni)
3.
favorire le politiche volte a minimizzare la perdita di
habitat e rendere i paesaggi agricoli “bee-friendly”.
Considerazioni personali sulla Carta di San Michele
all’Adige.
Quanto affermato in premessa lo
ripeto anche qua, per capirla ho dovuta leggerla più volte e credo che
continuerò a farlo.
Tralasciando commenti sulla prima
parte e le numerose note che portano a testi terzi la carta a cui fanno
riferimento i contenuti del testo, voglio soffermarmi su pochi semplici
punti.
Ritengo personalmente la carta un
documento importante, giusto, corretto, ma tardivo. Molti potrebbero pensare,
meglio tardi che mai, ma più che salvaguardia delle api autoctone (ma esistono
davvero poi ecotipi, api autoctone come dicono il significato di queste
parole?) è proprio l’ape in generale ad essere a rischio. L’apicoltura a cui
assisto e vivo, vede scambi di materiale da ogni parte di regione e nazione e
penso che questo sia un fenomeno ormai radicato e diffuso tanto da aver
compromesso definitivamente le specie autoctone. Per averne conferma basta
vedere i gruppi definiti mercatino per trovare in vendita api dalle caratteristiche
più svariate.
Una cosa che mi ha colpito e che
trovo un po’ in contraddizione nel documento è nell’affermare che:
“Nonostante questo lunghissimo e
prolungato rapporto tra le api mellifiche e l’uomo, possiamo però dichiarare
con certezza che questo straordinario animale non è mai stato domesticato.”
“È proprio la selvaticità
dell’ape mellifica, il suo non essere un animale domestico, il punto di
partenza di questo documento. “
salvo poi affermare che:
“oggi si assiste in un certo
senso al paradosso che una specie fondamentale per la conservazione degli
equilibri naturali, oltre che per l’alimentazione umana, sopravvive in Europa
quasi solo grazie alla sua gestione apistica.”
ritengo quindi che se non si
possa parlare di ape come animale domesticato, possiamo però affermare con
forza che l’ape è legata all’apicoltore a doppio filo e questo rapporto è alla
base della sopravvivenza della specie ape mellifera. I 6 punti che vengono
menzionati che portano al declino delle api autoctone e che sono condivisibili
per certi aspetti, non tengono conto a sufficienza che il problema primo delle
api sono gli ambienti agricoli e che non è un nome carino come agrofarmaco a
cambiare la situazione, le api muoiono per avvelenamento e indebolimento delle
stesse dovuti appunto all’uso smodato in agricoltura di pesticidi e del carico
di varroa che porta con se problematiche sempre più pesanti perché se una volta
le api potevano avere un carico di migliaia di varroe, oggi anche poche
centinaia portano al collasso le famiglie. L’altro fattore che ha compromesso
l’ape nostrana è stato il massiccio utilizzo di ibridi commerciali e l’utilizzo
di api appartenenti a territori specifici in altre zone ad esse estranee. Ma
occorre vedere i motivi di queste scelte. C’è chi sostiene per aumentare le
produzioni o altro, oppure per colmare col l’arrivo di api diverse le proprie
lacune. Non credo servano poi altre leggi per normare nomadismo o altro,
sarebbe inutile vista la particolarità nel settore. La cosa migliore sarebbe
usare il buon senso perché di leggi, nazionali e regionali ne abbiamo fin
troppe, forse andrebbero armonizzate.
Comunque senza dilungarmi troppo,
vengono fatti appelli generici per la tutela, ma forse lo scopo primo della
carta era quello di essere armonizzato in progetto in cui le associazioni
apistiche nazionali si facevano promotrici della stessa.
Il manifesto degli apicoltori di Unaapi
Due pagine semplici da leggere,
nate in risposta alla carta precedentemente citata, scritte in maniera diretta
e chiara.
Si fa il punto della situazione,
reale e puntuale, tenendo come obbiettivo ben presente l’apicoltore, forse fin
troppo.
Anche in questo documento si
afferma che l’ape a livello selvatico è pressoché assente, inoltre si afferma :
“L’apicoltura è l’allevamento
zootecnico che oggi garantisce la presenza e l’adeguata diffusione delle api e,
quindi, l’indispensabile apporto all’impollinazione della flora agraria e
naturale. Senza il continuo accudimento degli apicoltori e la loro capacità di
far fronte alle elevate morie e alle varie difficoltà di sopravvivenza delle
api, si determinerebbero gravi e catastrofiche conseguenze per l’agricoltura,
la vegetazione, la natura e l’ambiente tutto.”
Si passa poi ad elencare,
mediante elenchi puntati quello che va fatto per salvaguardare il patrimonio
apistico senza mettere in difficoltà il mondo dell’apicoltura.
Chiedo scusa per queste poche
righe ma è davvero complicato fare un sunto su elenchi puntati che di per se
sono già ottimamente enunciati. Invito quindi tutti a leggere tale manifesto in
maniera diretta, perché, a differenza della carta di San Michele, è molto più
semplice e alla portata di tutti.
Considerazioni personali sul manifesto Unaapi
Appena ho visto il link sul
social network che parlava di questo manifesto, sono andato immediatamente a
scaricarlo.
Ho letto il testo più volte, non
perché fosse complicato, ma perché cercavo di leggere anche quello che non era
scritto. Effettivamente, una risposta a una carta complessa come quella di San
Michele doveva, a mio avviso, avere più corpo. Ma questo è gusto personale.
Il linguaggio e le terminologie
usate invece, permette a questo documento di arrivare in maniera diretta anche
a chi non è abituato a leggere saggi o testi maggiormente scientifici e
articolati.
La cosa che mi ha colpito
positivamente è che non si ha paura di chiamare i pesticidi col loro nome e che
fra le cause del declino dell’ape sono stati inseriti in maniera chiara e forte
i cambiamenti climatici.
Si vede chiaramente che questo manifesto è scritto da chi
con le api ci lavora e deve tirar fuori reddito, senza tanti fronzoli di sorta
e fa un quadro abbastanza realistico della situazione attuale, o almeno io la
vedo così, in cui parlare di ecotipi e popolazioni autoctone non ha tanto
senso.
Questa considerazione è
rafforzata dal fatto che al punto a) del paragrafo Possibili priorità e
indirizzi sono: si afferma che:
“considerare autoctono non tanto
ciò che c’era originariamente e che è stato sconvolto, ma ciò che è
sopravvissuto;”
andando a cozzare col termine
stesso della parola autoctono. A questo punto meglio togliere la parola dal
testo in maniera chiara e definitiva.
Ultima considerazione, che mi
lascia perplesso è questa:
“I tentativi normativi attuati in Italia per la
preservazione basati principalmente sulla tutela vincolistica (in particolare
della sottospecie ligustica), non hanno ottenuto, né potranno mai ottenere,
alcun vero e concreto risultato.”
Se da un lato penso che non
servano altre leggi in materia, se non migliorare quelle esistenti, d’altro
canto non si può alzare le braccia in questa maniera. Di fatto si afferma che
in apicoltura non mancano leggi, ma tecnici e controlli degni di questo nome al
fine di far rispettare le leggi in materia.
Conclusioni
Fra quello che ho letto in rete
nelle varie discussioni e quello che ho potuto comprendere leggendo questi
documenti, sono arrivato a pensare che i due documenti dovrebbero essere
complementari e non in contrapposizione. Se da un lato, gli esponenti scientifici,
cercano di salvare il salvabile di quello che resta degli ecotipi, dall’altro
si ammette con troppa tranquillità che questi ecotipi di fatto non ci sono più,
forse in qualche zona remota.
Quello che francamente mi
sorprende è la “tranquillità” con cui si afferma che le api, a livello
naturale, non sopravvivono più.
Forse è questa la cosa che più
allarma. Abbiamo un insetto tanto importante quanto fragile, ormai incapace di
vivere allo stato brado.
Credo allora sia opportuno e
sempre con maggior forza rivedere e far modificare quello che sta devastando le
api, ovvero l’agricoltura intensiva, che fa ampio uso di pesticidi, in quanto
la mia preoccupazione è che siano le api in toto a sparire e allora non avrà
senso parlare di ecotipi o altro.
Chi le api le vive, combatte
tutti i giorni con problematiche ben lontane da quelle che si enunciano nella
carta di San Michele, carta che comunque Unaapi dovrebbe far sua e prendere
spunto per mettere un freno agli stessi apicoltori, che non curanti delle norme
e delle buone prassi, fanno praticamente quello che gli fa comodo e spesso
questi comportamenti si riscontrano in tutte le categorie: hobbisti, piccole
aziende, grandi aziende e nomadisti.
Sembra che ci si dimentichi con
troppa facilità che le api volano e le condotte di qualche vicino possano
compromettere il lavoro di selezione di aziende che cercano di puntare al
mantenimento di certe caratteristiche e la mia paura è quella di non riuscire a
far nascere regine che non siano imbastardite, come di fatto già avviene.
Non è mio intento fare la morale
a nessuno né tanto meno dare lezioni perché ho solo da imparare, ma se siamo
arrivati alla situazione attuale è per il comportamento nostro. Spesso e
volentieri per riempire i melari speriamo arrivi l’ape magica e allora via a
comprare ibridi, o portare carniche o sicule fuori dal loro ambiente. Tutto
questo senza pensare che se le api non raccolgono i problemi sono altri,
dall’ambiente circostante, alle morie sempre più frequenti, fino ad arrivare a
dire con chiarezza che forse se i melari non si riempiono la colpa in primis è
da attribuire all’apicoltore stesso.
Sicuramente andrebbero non fatte
nuove leggi, ma accorerebbe rispettare quelle vigenti.
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